Con buona pace dei luddisti della prima e dell'ultima ora, valersi della tecnologia digitale per riprodurre e rappresentare la realta' - si chiami come si vuole quest'operazione meccanica - sempre di fotografia si tratta. Una specie oggi cosi' diffusa che sarebbe davvero culturalmente miope considerare riprovevole maniera per il solo fatto di non rispondere ai canoni del tradizionale processo analogico. La modalita' poietica dell'atto fotografico digitale e' altro, sul piano antropologico dello sguardo, da quello agito con la pellicola in corpo macchina. Se le possibili conseguenze manipolatorie che esso consente possono scandalizzare menti irriducibili, cio' non significa che debba sempre e necessariamente mentire. L'introduzione del sensore elettronico, che traduce la luce in sequenze numeriche anzichè nell'immagine latente della pellicola, impone nuove modalità di uso e consumo dell'immagine fotografica al punto che, nel giro di pochi anni, un intero Sistema - si pensi solo al collasso di illustri marchi, come Polaroid e Kodak - ha dovuto rimettersi in gioco acquisendo le competenze tecniche richieste dalle nuove tecnologie digitali. Se ci si guarda attorno, tutti i settori toccati dalla riproduzione meccanica hanno subito una trasformazione così radicale rispetto agli assetti di pochi anni orsono, da fare apparire drammaticamente vetuste nobili ed ancora scintillanti apparecchiature, eppure in perfetta efficienza funzionale. Nell'era del Web di massa e del self-publishing, termini come telescrivente e fuorisacco, per quanta struggente nostalgia possano evocare nei più anziani operatori dell'informazione, sono vuoti di senso, perchè privati di ogni legame referenziale col presente. Pellicola e chimica, sensore ed elettronica, due versanti dello stesso fare, disuguali per carattere ed ancora costretti a convivere, ma in una opposizione che oltrepassa la dimensione dell'economia, per lambire i territori della filosofia (continua).
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